Lorenzo Micheli è uno dei pochissimi chitarristi italiani assurti a notorietà mondiale. Ciò nonostante, la sua discografia non è pletorica, e non credo che la causa di tale moderazione sia – felix culpa – il suo impegno di componente del Solo Duo, in cui, con il suo partner Matteo Mela, alimenta una ricca attività concertistica e una ragguardevole quantità di registrazioni (si deve loro, tra l’altro, una splendida resa del ciclo Les guitares bien tempérées per due chitarre di Mario Castelnuovo-Tedesco). Dev’essere invece la scelta di fare di ogni suo disco il riflesso di un momento-chiave nella sua storia di interprete, evitando la routine. Fino a ieri esistevano tre CD essenziali nel suo catalogo di solista; non a caso, tutti e tre monografici, dedicati rispettivamente a Dionisio Aguado, Mario Castelnuovo-Tedesco, Miguel Llobet. Nella fiorita compostezza del classicismo aguadiano, nell’iridescente crepuscolarismo di Llobet, e soprattutto nella sapiente affabulazione musicale di Castelnuovo-Tedesco, Micheli aveva trovato coincidenze con il suo stile di interprete e aveva offerto prove in cui si poteva ammirare quell’equilibrio capace sia di rendere giustizia alle pagine eseguite che di rivelare le peculiarità di chi le esegue.
Il disco appena uscito per Contrastes Records – un’etichetta spagnola distribuita da Naxos – rappresenta una svolta, e non mi sembra vano cercare di coglierne le motivazioni e i modi. Non si tratta più di una monografia, ma di un’antologia con cinque autori (il prediletto Castelnuovo-Tedesco, e poi, nuovi nella discografia dell’interprete, Tansman, Asencio, Gilardino, de Breville): ciò significa che Micheli non si considera più soggetto all’impegno di spendersi per un solo autore, e che vuole invece convocare quei lavori – di diversa provenienza – che gli permettono di manifestare variamente ed esaustivamente il suo momento creativo. Di tale risoluzione fanno chiarissima fede il titolo del CD, Autumn of the Soul (Autunno dell’anima) e l’epigrafe che sormonta le note (redatte dallo stesso interprete), una citazione da Jiménez: “¡Alma mia, lirio en la sombra!” (Anima mia, giglio nell’ombra!). Non meno significativa è l’immagine di copertina, sicuramente scelta dallo stesso Micheli: una fotografia in bianco e nero che raffigura un poco cripticamente un’auto (simbolo del movimento e del viaggio) abbandonata tra il ricco fogliame di un bosco, o di un giardino, in una sosta della cui durata nulla si può sapere – se rimarrà lì qualche minuto, o per sempre.
A questo punto, sembra ozioso il voler osservare le distanze epocali e stilistiche tra le musiche offerte dal programma, e risulta invece molto più appropriato il cercare di comprendere le affinità che collegano, con filamenti sottilissimi, autori e brani. Il CD incomincia e finisce con il Castelnuovo-Tedesco di Platero y yo: in apertura, Retorno, La tísica, Angelus, La primavera, e, a conclusione, Platero, Melancolía, La arrulladora, A Platero en el cielo de Moguer. Il fatto che un virtuoso con le facoltà di Micheli scelga, come esordio e come commiato in un suo disco, due elegie – una cullante e una struggente – è di per sé più che bastevole a rendere esplicito il sentimento che lo ispira, e che trova altri luoghi propizi nella quieta, memore pensosità del trittico intitolato Hommage à Chopin di Alexandre Tansman (Prélude, Nocturne, Valse romantique), nell’aggraziata, ma in fondo grave di presagi, Fantaisie di Pierre de Breville (pagina negletta del repertorio-ombra di Segovia, qui risarcita in tutti i suoi meriti), nella penitenziale Suite mística del valenciano Vicente Asencio (Getsemanì-Dipsô-Pentecostés) e nelle cogitabonde Variations sur un thème de Scriabine, nelle quali Tansman ripensa incessantemente, non potendo assoggettarlo a metamorfosi, un lapidario preludio del maestro russo.
Soffia, lungo tutti e settanta gli incantevoli minuti dell’audizione, un’aria di declinante dolcezza che nemmeno i momenti di impeto riescono a dissipare. Nella sua infinita varietà di sottigliezze dinamiche, agogiche, timbriche, di articolazioni e di espressione, lo stile dell’interprete è guidato da un affetto costante e versato in un tono da Ecclesiaste che sembrerebbe in aperto contrasto con la sua età, la vigorosa pienezza dei suoi mezzi e il fiorente sviluppo della sua carriera. Deve quindi trattarsi di un transito poetico simile a quello che dettava al giovane T.S. Eliot – ben prima che la gloria lo innalzasse – i versi – che, ancor più di quelli juanramoniani, potrebbero stare in epigrafe a questo disco: “Volgendo stancamente il capo come chi volga il capo/Per un addio a La Rochefoucauld, come se la strada/Fosse il tempo e lui fosse là, al fondo della strada”. A chi è scettico nei riguardi della chitarra, non resta che inchinarsi a questo disco come a una magica eccezione, o negarne la sublime evidenza.